martedì 3 giugno 2008

Lo scirocco dentro il cranio.

Pensavo a me stupidissima e a come la mia vita da lunga e continuamente lineare si era fatta breve e frammentata, composta da scomparti, riempiti intensamente certo, ma conclusi sempre così rapidamente, così penosamente. Mi dicevo anche che era tempo che io la smettessi di agitarmi così tanto: e leggevo nella tachicardia del giorno passato il segno del fallimento attuale.
Come il dettaglio di una macchia di vino su un tappeto altrui diventa il simbolo di un’autonomia non ancora pienamente posseduta, allo stesso modo mi si chiede dove ero stata, prima, e la mia presenza, ora, ed il ritardo della conquista, poi, si traducono in questa lacuna da colmare, ultimo tappo per la completa padronanza dell’indipendenza.
Ecco, così ci si racconta la propria storia, come potrebbe farlo una donna di successo aspettando un treno che la porta lontano. Perchè si sceglie un treno invece di un aereo o di un auto comodamente guidata da altri; per vedere un indefinito uniforme scorrere dal finestrino, per dormire rintontiti dal meccanico passaggio sulle rotaie, per la nebbia che si forma intorno alla mente al consapevole abbandono in cui sui cade, durante un viaggio del quale si conosce la meta ma non le fermate intermedie. La certezza di un punto d’arrivo, l’ignoranza del mare di mezzo. Un viaggio in attesa, per raccontarsi la propria storia.
Si guida tra le strade bagnate, l’asfalto umido di pioggia appena caduta, il cielo carico di afa gocciolante, prosegue sul percorso, rallentato, verso un’ora, più che un appuntamento. Si comprende che come i luoghi carichi di fascino, i navigli si appropriano del loro vero senso solo sulla via della schiarita, alle spalle, e nera tempesta, all’orizzonte. Le acque scure, indefinite nella loro consueta sporcizia danno reale dimora ai piccoli battelli solo in questo tempo, quando il confine tra il filo del canale e il legno marrone si confonde in un unico sciabordio immobile. Gli alberi ricchi di verde del maggio inoltrato, splendenti ancora prima della calura estiva, colmi di foglie e quasi fuori luogo nel loro naturale splendore, dentro la città grigia che tutto nega al crescere di uno stelo d’erba. Che tutto nega al crescere, al nascere, forse. Una folla ancora poco nutrita rispetto all’usuale via vai del rituale cammina frettolosa, ancora incerta del passo che l’atmosfera intende farle prendere; si muove con una rapidità speciale, traccia inconscia di un passato campestre, animale a volte. L’incedere rapidissimo di chi si racconta da dove viene, e perchè, ancora nel cuore la spensieratezza di un peso di dovere momentaneamente tolto, negli occhi i progetti rosei di chi ancora non sa cosa aspettarsi, cosa volere. Il caro vecchio Giacomo accusato di infantilismo, di adolescenza comune e lacrimosa come quella di tutti, mentre osservava che l’attesa è la più calda delle felicità, la più labile ed irreale, eppure l’unica che davvero si può possedere.
Insomma. Possiamo davvero sostenere ora, che lo sbaglio sia non tanto dirigersi verso la parte oscura, quanto non apprezzare quella chiara.

“Sto solo cercando di disporre questo confuso in un ordine più o meno plausibile”.

Dalla prospettiva attuale, le cose appaiono ancora parecchio confuse. Ho sempre desiderato iniziare un testo partendo “dalle prospettive attuali”, e penso che farlo adesso abbia più senso che altrove. Parlare di prospettive ora, in un periodo che sembra dedicato al disordine e all’irresponsabilità, mi sembra - per assurdo - la cosa più sensata, e allo stesso tempo - paradossalmente - l’unico modo che conosco per riassestare quegli equilibri scardinati ripetutamente da quelle che - irresponsabilmente - chiamiamo malvagie condizioni esterne.
Dalla prospettiva attuale, gli ultimi giorni appaiono nuovamente parecchio confusi. Agitati e, conseguentemente, estremamente confusi, arrabattati, accavallati, annodati, ingarbugliati alla Carlo Emilio. Dipanarli è impossibile, e qualsiasi sforzo viene frenato sul nascere da una inetta pigrizia carica di contorsioni intestinali. Un sacco di cacca, anche.
Dalla prospettiva attuale, le persone appaiono sorprendentemente piene di problemi.
Le persone sono davvero piene di problemi: e il problema non è solo il tuo, quel problema dell’essere te che ancora non sai bene che è, se lo è e perchè; i problemi sono ovunque, si attorcigliano alle gambe magre del ragazzo di fronte, lassù incastrate negli occhialetti mesti di quell’altra, colpiscono il cranio della tua amica, si insidiano nel cuore del suo amico, risalgono per le vene di una persona che c’era e che ora non c’è più, ritornano come vendetta verso l’inguine di belzebù, disegnano costellazioni tra le lentiggini di quell’altro e annodano la barba dell’amico perduto, soddisfano le sfortune delle amichette più care, si risvegliano negli animi più pacati, sobillano i malvagi, aizzano i violenti.
Dicevamo cacca, appunto.